Intervista a Kasparov

» Altro - Inserito da Albitex il 13/04/2014, 18:57:17

Intervista a GARRY KASPAROV di Piergiorgio Odifreddi

Per quindici anni, dal 1985 al 2000, gli scacchi dell'era della globalizzazione sono stati dominati dal multietnico Garry Kasparov, un sovietico azero di madre armena e padre ebreo.

Come già Jesse Owens, che dopo aver vinto quattro medaglie d'oro alle Olimpiadi di Berlino del 1936 corse alcune gare contro i cavalli, anche Kasparov ha sentito a un certo punto il bisogno di passare ad avversari non umani, diventando il protagonista di alcune mediatiche disfide col calcolatore, fino alle prime epocali sconfitte di un campione del mondo da parte di una macchina (in una partita nel 1996, e in un torneo nel 1997).
Ritiratosi dalle competizioni nel 2005, lo scacchista ha ora cambiato scacchiera e sta giocando una partita diversa nel gioco della politica, come leader del Fronte Civile Unito e presidente della coalizione Altra Russia, opponendosi al regime di Putin e combattendo per i diritti civili: un impegno che gli è già costato diversi arresti.

Questo vulcanico personaggio, è autore fra l'altro di una sterminata storia degli scacchi intitolata «I miei grandi predecessori» e di un volume di riflessioni su «Come la vita imita gli scacchi».

Per cominciare in maniera indolore, qual è il segreto del successo?
Io credo che il segreto del successo stia dentro di noi. Se vogliamo aver successo, dunque, dobbiamo riuscire a capire chi siamo e a identificare i nostri punti di forza e di debolezza, arrivando a sapere tutto di noi stessi. Non possiamo essere timidi con le nostre debolezze, o aggirare i problemi che ci portiamo dentro: dobbiamo analizzarci e rinnovarci continuamente, in una perenne sfida contro noi stessi.

Non si può semplicemente evitare di fare errori?
No, di errori se ne fanno di continuo. Uno dei segreti del mio successo, quello che mi ha permesso di rimanere al top degli scacchi per vent'anni, è stato proprio il non aver mai sottovalutato niente: anche dopo una vittoria sono sempre andato a ricercare i miei errori, per poter continuare a sorprendere gli avversari. Chi vuol stare al vertice non può riposare sugli allori: deve sfidarsi al punto da arrivare a essere crudele con se stesso.

Ma lei, dunque, non ha mai giocato una partita perfetta?
No, se non altro perchè negli scacchi si gioca in due: in una partita perfetta, anche l'avversario dovrebbe essere all'altezza della situazione! Alla perfezione si può tendere, però, e lottare per avvicinarvisi è il compito di ogni giocatore, per non dire di ogni uomo.

E lei, quando vi si è avvicinato maggiormente?
In una partita del 1999, contro Veselin Topalov. A un certo punto riuscii a vedere una splendida posizione finale, con un anticipo di ben quindici mosse! Avrei potuto vincere prima, volendo, ma ho preferito continuare la partita fino a realizzare quella posizione: per una volta l'ideale della bellezza ha avuto la meglio sulla pratica dell'efficienza.

Visto che siamo arrivati agli scacchi, come è finito da bambino nella scuola di Mikhail Botvinnik?
Le scuole per i giovani talenti delle nuove generazioni facevano parte della tradizione sovietica, e quella di Botvinnik fu una delle prime e delle migliori: negli anni '60 ci studiò Karpov, negli anni '70 io, e negli anni '80 Kramnik. Io fui scelto per andarci nel 1973, a dieci anni.

E' vero che poco dopo lei stupí Botvinnik, facendo una nuova analisi di una sua partita con Fischer?
Sí, a dodici o tredici anni. Si trattava di una famosa partita del 1962, che era stata analizzata estesamente. Fischer si era illuso di avere la vittoria in tasca, ma durante la sospensione Botvinnik aveva trovato un modo ingegnoso per pattare. In seguito Fischer cercò di dimostrare che aveva avuto una strategia vincente, e Botvinnik che c'era invece una strategia per pattare, ma entrambi si erano concentrati sul finale di partita. Io scoprii sorprendentemente che una strategia per pattare c'era già fin dagli inizi della partita, anche se per gli standard moderni si tratta di una cosa elementare.

A proposito, nel suo libro lei pone Botvinnik e Fischer nella stessa categoria, come giocatori «con un intuito relativamente modesto»!
Certo, erano entrambi analisti rigorosi che credevano nell'esistenza di soluzioni scientifiche.

Ma Fischer non era un maestro di intuizione artistica?
No, era piuttosto un giocatore molto rigido. Intendiamoci, certamente innalzò gli scacchi a un livello mai visto prima, ma non lo fece basandosi sull'intuizione!

Un background scientifico, come quello del matematico Lasker o dell'ingegnere Botvinnik, non è dunque sufficiente a classificare il loro gioco?
No. Botvinnik certamente giocava come un ingegnere. Ma Lasker, altrettanto certamente, non giocava come un matematico: non solo aveva un forte intuito specifico, ma credeva anche che le mosse avessero un valore relativo e non assoluto.

Da che cosa è determinato, allora, il tipo di gioco?
Gli scacchi sono sempre stati un riflesso della cultura e della scienza dominanti nella loro epoca. Prendiamo Steinitz, ad esempio, che fu il fondatore della scuola posizionale: la sua idea, che tutto potesse essere ordinato strutturalmente in maniera oggettiva, era semplicemente il pensiero della fisica di fine Ottocento, che credeva ancora che tutto fosse controllabile e decidibile.
Poi venne Lasker, che al contrario di Steiniz credeva che gli scacchi fossero una lotta soggettiva, nella quale bisognava solo fare la miglior mossa possibile contro l'avversario: lui era il riflesso di Einstein e Freud, di un pensiero in cui tutto è relativo e psicologico. E se si guardano gli altri campioni, si vede sempre una chiara correlazione tra i loro stili di gioco e il pensiero dominante della loro epoca.

Anche in Karpov e lei?
Certo. Karpov, che è un tipico conformista, visse in un periodo in cui l'Occidente era in ritirata, e divenne il simbolo della cinica accettazione dell'avanzamento comunista. Io invece, che sono un ribelle e un rivoluzionario, ho vinto il titolo in tempi di grandi cambiamenti.

A proposito di Karpov, nel suo libro lei scrive che Fischer decise di non giocare contro di lui perchè ormai aveva capito che il proprio gioco era diventato obsoleto.
I passaggi generazionali, come quello tra Fischer e Karpov, sono i momenti cruciali della storia degli scacchi. Fischer era stato il dominatore della vecchia generazione, ma Karpov era il top della nuova. Contro di lui Spassky non aveva avuto speranze, e Karpov l'aveva battuto nel torneo dei candidati in maniera più convincente di quanto Fischer avesse fatto nel campionato mondiale. Lui capí che si sarebbe trovato di fronte un avversario molto più difficile di Spassky, e che aveva molte possibilità di perdere.

Lei pensa che avrebbe effettivamente perso?
Poteva migliorare rispetto a quando giocò con Spassky, ma certo sarebbe stato un match molto difficile. Tenuto conto della sua instabilità psicologica, Karpov aveva la massima probabilità di vincere: almeno, cosí la penso dopo aver studiato le loro partite. E Fischer, che aveva sempre avuto timore di iniziare le competizioni, non riuscí a superare la paura e non giocò.

Nel ciclismo c'è stata una disputa tra i sostenitori di Coppi e Merckx, su chi era «il più grande» e chi «il più forte». Lei come definirebbe Fischer e se stesso?
Sono riluttante a rispondere a questa domanda. Lei come risponderebbe, se le chiedessi la stessa cosa su Newton e Einstein? E' difficile paragonare persone che appartengono a epoche diverse. Oggi qualunque studente sa più cose di fisica di Newton, cosí come qualunque grande maestro sa più cose del Fischer di trent'anni fa, ma questo cosa vuol dire?

Io volevo che facesse una distinzione tra forza e grandezza.
Negli scacchi l'unica qualità che conta è il divario tra un giocatore e gli altri. Quello tra Fischer e il resto del mondo è stato probabilmente il più grande della storia, ma è durato solo un paio d'anni, mentre io ne avuto uno magari un po' minore, ma molto più lungo: il mio dominio è durato quindici anni, e sono riuscito a mantenerlo anche sulla generazione successiva alla mia.

Questa lunghezza del suo dominio è stato uno dei motivi per cui, a un certo punto, ha iniziato a giocare coi computer?
L'ho fatto perchè credevo che fosse importante per il progresso del gioco. Per me è stato un grande esperimento sociale, culturale e scientifico del ventesimo secolo, un tentativo di vedere come si paragonano la forza bruta del calcolo e l'intuizione umana.

Si paragonano talmente bene, che quando il computer l'ha battuta lei l'ha accusato di essere stato aiutato dall'uomo ...
Oh, Deep Blue ha certamente ricevuto assistenza umana nella seconda partita del match del 1997, e probabilmente anche nella quinta! E non è che ciò che dico io sia alla stessa stregua di ciò che dicono loro: dapprima il team di Deep Blue ha rifiutato di mostrare gli elaborati del computer, e poi ha distrutto il computer.

Il programma, vuol dire?
Deep Blue non era un programma! Era un insieme di processori paralleli, ciascuno dei quali aveva un suo programma e poteva analizzare un milione e mezzo di posizioni al secondo: c'era un albero di 256 processori, con un comando centrale. E da ciò che si deduce dalle informazioni molto limitate che sono state fornite, erano riusciti a ottimizzare la potenza in modo da analizzare duecento milioni di posizioni al secondo. Ma non sappiamo come la macchina giocava, perchè non ne abbiamo mai visto il meccanismo decisionale.

Sicuramente non era però qualcosa nello stile di Botvinnik, di emulazione del pensiero umano.
A me va benissimo che l'Intelligenza Artificiale si limiti a simulare i risultati, senza emulare i processi cerebrali. Se, di fronte a una mossa da fare, io passo il 99% del mio tempo a pensare e l'1% a calcolare, mentre la macchina fa il contrario, ma arriva allo stesso risultato, si tratta in entrambi i casi di intelligenza. Il modo è irrilevante: quello che conta è il risultato.

Cos'è successo dopo Deep Blue?
Le macchine sono cambiate, e stanno cessando di essere completamente materialistiche e deterministiche: ora manifestano elementi di incertezza, e arrivano a sacrificare dei pezzi pur di ottenere deboli compensazioni. Incominciano a lasciar intravedere elementi umani, prendendo decisioni diverse da quelle stabilite dalla loro tavola di valutazione.

E arriveranno a manifestare differenze di personalità?
Lo fanno già. Se lei mi mostra cinque o sei partite giocate dai migliori programmi in funzione oggi, molto probabilmente le saprei dire quale di loro ha giocato: con una partita isolata è difficile, ma con un certo numero si possono smascherare. Ad esempio, quando ho giocato nel 2003 i due match con il Deep Junior israeliano e l'X3D Fritz tedesco, sono riuscito a distinguere nel primo un'aggressività e uno spirito combattivo tipicamente israeliani, e nel secondo una solidità tutta tedesca.

D'altronde, i programmi non fanno che riflettere le mentalità dei programmatori.
Certo, dietro la macchina si riesce sempre a vedere l'uomo. Ed è soprendente che oggi i programmi esibiscano differenze a volte più marcate di quelle fra giocatori umani.

Ora che si è messo a giocare un gioco diverso, la politica, le mancano gli scacchi?
Io non guardo indietro. Sono solo due anni che ho lasciato le competizioni, ma quel mondo mi sembra ormai molto lontano.

Non c'è possibilità che giochi di nuovo?
Io non torno indietro. Ma mi piace ancora guardare le partite, giocare a volte su Internet, e soprattutto continuare a scrivere la mia storia degli scacchi, che è solo a metà: i prossimi due volumi saranno dedicati alle mie sfide con Karpov, un altro alle mie partite migliori, un altro ancora ai racconti sugli scacchi, e uno infine alla competizione uomo-macchina. Mi ci vorranno almeno altri cinque anni.

Come mai ben due volumi su lei e Karpov?
Perchè gli scacchi moderni sono stati forgiati dalla nostra battaglia, combattuta coi nostri diversi e opposti stili. I nostri match hanno creato una nuova sinergia, e accelerato lo sviluppo del gioco.

Karpov è un po' la sua nemesi, vero?
Non nascondo la mia disapprovazione dell'uomo. Non ha alcuna idea politica, e l'unica cosa che si può dire di lui è che è governativo: lo era vent'anni fa, quando io ero già un ribelle, e continua a esserlo anche ora, mentre io continuo a essere un ribelle. Ma come giocatore, ha avuto capacità assolutamente uniche.

E' interessante che, sull'insieme delle circa 180 partite che avete giocato, siate stati quasi pari!
Quasi, appunto. Io gli sono stato davanti di quanto è bastato: ho sempre vinto le partite decisive, e questo è ciò che conta. Anche psicologicamente.

Perchè, non è sempre stato freddo e tranquillo.
Sembrava, ma alla resa dei conti il suo sistema nervoso ha ceduto. Era sempre stato superprotetto dal sistema, ma quando si è trovato solo contro di me, senza il sistema dietro, non ce l'ha fatta.

Lei si sente probabilmente più vicino a Spassky, che non è stato proprio un ribelle, ma certo non era un uomo di apparato.
Spassky era molto frizzante, un dandy. E anche un po' pelandrone.

Oltre che in politica, lei è un ribelle anche in campo religioso?
Non sono stato educato religiosamente, ma direi di essere autonomamente diventato cristiano, in qualche senso. Naturalmente sono sempre stato molto a disagio con le strutture confessionali, che si inseriscono fra un individuo e il potere supremo: in particolare con la Chiesa Ortodossa, che in Russia è la più rigida di queste strutture. Non mi piacciono le regole stabilite dagli uomini.

Non sono stabilite dagli uomini anche quelle degli scacchi? Lei non sembra metterle in discussione, però, mentre Fischer l'ha fatto.
Io sono favorevole ad aggiustare gli scacchi alle necessità moderne. Mi vanno bene tutti i cambiamenti che possono aiutare il gioco preservandone l'integrità: la forma non è importante, se si mantiene la sostanza. Ma credo che i cambiamenti troppo radicali, come gli Scacchi Casuali di Fischer [Negli Scacchi Casuali i pezzi diversi dai pedoni vengono disposti casualmente agli inizi, allo stesso modo per entrambi i giocatori, con le uniche due condizioni che il re stia fra le due torri, e i due alfieri stiano su caselle di colore diverso. Poichè ci sono 960 possibili posizioni, gli Scacchi Casuali si chiamano anche Scacchi 960.] siano sbagliati.

Lei cosa proporrebbe?
Ammettere una o più nuove posizioni di apertura all'anno, cosí che ci sia un po' di tempo per prepararsi, ma non troppo. Non permettere nessuna preparazione, scegliendo appunto posizioni casuali, è eccessivo: io ho sempre trovato una strana corrispondenza tra lavoro e risultati. Anche se, naturalmente, un po' di fortuna aiuta.

In che percentuale?
Non lo so. Ma so che ne ho sempre avuta quanto bastava.
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Commenti

  1. Utente: Carotino

    07/05/2014, 21:38:07

    Affascinante!
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